Fa un certo effetto nel giorno dell’anniversario della morte del generale Dalla Chiesa, che smantellò la rete brigatista, che un ex Br faccia controinformazione, difendendo una storia indifendibile dalle colonne de L’Unità. Paolo Persichetti scende a difesa di Bertulazzi, all’epoca militante della colonna genovese delle Br, per cui l’Italia ha ottenuto nei giorni scorsi l’arresto in Brasile in vista dell’estradizione in Italia dove deve scontare 27 anni per sequestro di persona, associazione sovversiva e banda armata. Latitante dal settembre 1980, da 44 anni, è stato condannato in via definitiva, tra l’altro, per il sequestro dell’ingegnere navale Piero Costa avvenuto a Genova il 12 gennaio 1977.
Il sequestro era stato ideato dalle Br per l’acquisizione di mezzi finanziari per sovvenzionare l’attività terroristica. 50 milioni di lire vennero utilizzati per l’acquisto dell’appartamento di via Montalcini 8 a Roma, uno dei covi allestiti dalle Brigate Rosse per essere utilizzato per il periodo del sequestro di Aldo Moro, oltre ai covi di via Palombini e via Albornoz. Il fatto che all’epoca del sequestro Moro Bertulazzi fosse in carcere nulla toglie al fatto, giudizialmente accertato, che i soldi da lui ottenuti con il sequestro Costa siano stati utilizzati anche per la logistica del sequestro Moro.
Del resto, durante il sequestro Moro, molti brigatisti erano in carcere, a cominciare dal fondatore Renato Curcio, che dal carcere – nel suo caso – cercò di instaurare una trattativa per la liberazione di Moro. Il ruolo nel sequestro Moro della colonna genovese – guidata dal capo militare delle Br Riccardo Dura, rimasto ucciso insieme ad altri tre brigatisti nella primavera del 1980 nel blitz dei carabinieri di Dalla Chiesa in via Fracchia – è emerso in tutta la sua importanza solo negli ultimi anni. Ciò premesso, Persichetti attacca ‘il teorema Mollicone-Calabrò-Fioroni’ sull’ultima prigione di Moro – in cui potrebbe essere stato ucciso – in Corso Vittorio presso il garage della residenza dell’ambasciatore del Cile presso la Santa Sede, individuata a seguito di una serie di recenti risultanze seguite al lavoro della Commissione Moro 2 presieduta dal deputato dem Fioroni. Ma cosa c’entra Corso Vittorio con Bertulazzi? Come mai Persichetti si scaglia contro questa ipotesi investigativa?
Già prima di Bertulazzi, è nota la dedizione di Persichetti – ex Br anche lui, condannato definitivamente a 22 anni di carcere per concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri, scarcerato nel 2014 – nei confronti di altri latitanti Br condannati per il sequestro Moro, tra cui quelli per il favoreggiamento. Persichetti ha subito nel giugno 2021 un sequestro del suo archivio e dei suoi strumenti informatici, ordinato dalla Procura di Roma con l’accusa di divulgazione di materiale riservato della Commissione Moro2 con l’aggravante di associazione sovversiva con finalità di terrorismo.
Non conosco l’esito di questa ultima indagine nei confronti di Persichetti, ma la storia dei due latitanti in questione è nota. Alvaro Lojacono è stato condannato all’ergastolo in contumacia nel processo Moro – quater per il sequestro di Aldo Moro (estradizione respinta dalla Svizzera in quanto ha acquisito la cittadinanza svizzera, grazie alla madre) e condannato in contumacia a 16 anni di carcere per l’omicidio dello studente greco del Fronte della Gioventù Mikis Mantakas. Anche per questo delitto la richiesta di estradizione di Lojacono è stata respinta dalla Svizzera. Lojacono è stato anche condannato in Svizzera a 17 anni per l’omicidio del giudice Tartaglione (condanna scontata di 11 anni). Persichetti si è speso anche per Alessio Casimirri, presente in via Fani, la primula rossa del sequestro Moro e di altri efferati delitti, condannato in via definitiva a 6 ergastoli, ma che non ha scontato neppure un giorno di carcere.